Se non fossero già esistiti gli Alice In Chains, mi sarebbe piaciuto fondare un gruppo grunge chiamato Alice In Borderland. Cioè, cavolo, il revival degli anni 90 arriverà no? Ma sono io che sono arrivato tardi, o meglio, sono giunti prima di me un manga ed una serie Netflix per tutti quelli che amano mondi distopici e morti ammazzati con tanto sangue che schizza. Ora proprio per questo, nonostante il chiaro richiamo a Lewis Carroll, non si deve pensare ad ottocenteschi mondi favolistici con conigli bianchi e lepri marzoline. Niente di tutto questo. Però un Cappellaio (un pochino matto) e tante carte da gioco, quelli si che ci sono.
Ma torniamo al titolo dove Alice è semplicemente la translitterazione in inglese del nome del protagonista Arisu, quello che sembra uno dei BTS (anche se loro sono sudcoreani), un ragazzo appassionato di videogames e fancazzista che, insieme ad altri suoi due amici, si trova costretto a partecipare ad un survival game in una Tokyo deserta e distopica. Otto episodi per un'idea che certo non è una novità assoluta, ma intriga molto e la serie è ben realizzata, con momenti splatter come i giapponesi sanno fare molto bene senza essere troppo politicamente corretti quando si tratta di prodotti come questo, o come Battle Royale di cui, più o meno dalla seconda metà di episodi, cioè da quando arriva quel sosia che non ti aspetti, cioè quello di Ethan Torchio, il batterista dei Maneskin, ne diventa in pratica una gemella con tutti contro tutti... No, attenzione, ho detto Battle Royale e non ho detto Hunger Games, no proprio no. E se qualcuno ha pensato alla saga di film con l'onnipotente Jennifer Lawrence troverà ogni chiarimento QUI.
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Chi spamma invece non è gradito per cui occhio!
Tengo sempre pronto il blaster.